07 - Il dominio Svevo Angioino

il Dominio Svevo Angioino

Il periodo Svevo per Adernò segnò, come del resto per la Sicilia, l'inizio di gravissime perturbazioni, causate da vari fattori disgreganti quali: l'intolleranza verso gli industriosi saraceni, la brama di potere incontrollato da parte dei grandi feudatari, la smania di supremazia teocratica della chiesa, la gara miope e municipalista di Palermo e di Messina per avere il primo posto in Sicilia, la boria intollerante degli Svevi, incuranti delle situazioni concrete dell'Italia e della Sicilia e l'avidità di potere da parte di profittatoci italici e stranieri nei momenti di incertezza della dinastia Sveva.

Dal 1197, infatti, anno della morte di Erico VI di Hohenstaufen (1195-1197), durante la reggenza di Costanza di Altavilla (1197 al 27-12-1198) e la minorità di Federico Il (1194 al 1210), si ebbe un periodo torbido di quasi anarchia, che i papi tentarono invano di dominare.

In particolare si verificarono: il sospetto avvelenamento di Enrico VI da parte della moglie, il tradimento del balio del piccolo Federico, Rainero conte Forziano, la tutela del minore affidata al teocrate Innocenzo III, la defezione di Marcovaldo, che mise a sacco la Sicilia, le mene imperiali di Filippo, zio di Federico, le mene di Ottone di Brunwich, la ribellione di Enrico, primogenito dell’imperatore, accusato di lesa maestà e fatto morire di fame in prigione a Marturano di Calabria (1135).

Allora ebbe luogo la fase più dura della lotta tra Federico e la chiesa (1230-1250), che si faceva paladina di civiche libertà e arbitra indiscussa di deporre i sovrani temporali. Soprattutto rovinosa per la Sicilia e per Adernò fu la persecuzione dei saraceni.

Essi non tollerando più le crudeltà e lo spietato sfruttamento dei baroni, appoggiati dalla ignoranza dei popoli, sotto il loro capo Mirabetto si ribellarono e si fortificarono fra l'altro a Troina, ad Entella, e a Centuripe, dove convennero anche i saraceni di Adernò e facevano scorrerie e azioni di brigantaggio, per sopravvivere, finché nel 1225 furono sconfitti e in gran parte massacrati. I sopravvissuti furono deportati, in qualità di truppe ausiliarie, nella città di Lucera, che fu riedificata da loro e per loro.

Nel periodo svevo per Adernò, che ancora non si era liberata da un senso di inferiorità verso la più importante Centuripe, si verificarono tre fatti notevoli: il primo fu che Adernò e il suo castello divennero il covo di una famiglia di avventurieri: i conti Bartolomeo, Guglielmo, Gualtiero e Pagano Parisio, che proclamandosi discendenti degli Avanello, si insediarono ai confini delle diocesi di Catania e di Messina. Essi da Adernò a S. Filippo di Agira e a Calatabiano cominciarono a usurpare e a depredare con violenza i beni della chiesa, finché non furono vinti e banditi da Federico II (1209) che ne confiscò i beni, fra cui il Casale di Calatabiano, che fu donato al vescovo di Catania (1213).

Il secondo fu la distruzione (1232) di Centuripe e la deportazione dei suoi abitanti, nella nuova città di Augusta. Essi, sobillati dalla chiesa, si erano ribellati all'imperatore, insieme coi cittadini di Messina, Catania, Siracusa e Nicosia. Per sorvegliare il castello di Centuripe Federico innalzò una torre in Adernò nel sito di quella normanna nel 1213.

Il terzo fatto curioso avvenne nel 1261, allorché per conto di Manfredi (1258-1266) governava in Sicilia il conte del Marsico, Riccardo Filangeri. Comparve nella parte del territorio di Adernò, che guarda Centuripe, un certo accattone di nome Giovanni Calcara, il quale aveva un aspetto somigliantissimo al defunto imperatore Federico; costui, sobillato dalla chiesa e insuperbito da questa somiglianza, pensò di sfruttarla; si diede ad abitare in una grotta, facendosi credere FedericoII ritornato dall'altro mondo per espiare nella miseria la sua vita peccaminosa di nemico della chiesa.

Gli abitanti di Adernò e dei paesi vicini, cominciarono ad ossequiarlo e a provvederlo di ogni ben di Dio.

I fautori della chiesa approfittarono di questa insperata occasione e si portarono, come redivivo imperatore pentito, il detto Giovanni a Centuripe, da dove quello si mise a mandare lettere con sigillo, contraffatto, per invitare i popoli al ritorno all'obbedienza della chiesa.

Riccardo Filangeri, vedendo che una quantità di ribelli si radunavano attorno al falso Federico e complottavano contro Manfredi, pensò bene di impadronirsi dell'impostore, che fuggì a Castrogiovani, dove fu preso e impiccato coi suoi più stretti seguaci.

A questo punto, pare che anche Adernò non sia stata abbastanza fedele all'imperatore Federico, tanto che questi, pacificatosi coi Messinesi (1233), diede il casale etneo “in retturia”, cioè a sfruttamento a baiuli o capitani messinesi, che praticamente s'impossessarono delle terre e divennero la classe dominante.

Di questo fatto si conserverebbe memoria nella esistenza di un forte sostrato di cognomi messinesi, precedente al sostrato di cognomi aragonesi e catanesi del '300 e del '400.

I Crisafi, i Galifi, i Crisà, i Marullo, i Viaggio, gli Alamanno, i Falcone, gli Sclafani, i Lentini, gli Anzalone, i Russo, i Parisi, i Lanza, i Lo Giudice, i Nicolosi, i Cusumano, i Merlo, i Campolo, i Milazzo, i Vinciguerra, gli Anfuso, i Colombo, i Crisafulli, i Saporito, i Di Salvo sarebbero venuti in tale periodo.

Non si conoscono i nomi dei padroni di Adernò nel periodo Riccardo Filangeri, forse alcuni di essi saranno stati della potente famiglia dei Lancia, assai potente in quel periodo.

Adernò era assai vicino a Centuripe, nella cui rocca si ebbe l'ultimo tentativo di resistenza del cavaliere napoletano Corrado Capicius, fautore ferventissimo di Corradino (1254-1258).

Quindi Adernò dovette molto risentire delle lotte tra Angioini e Svevi anche nel suo territorio: forse a questo periodo risale il saccheggio del Monastero normanno di Santa Lucia fuori delle mura.

Carlo I d'Angiò (1266-1272) avuta l'investitura del Regno di Sicilia, aveva mandato nell'isola Filippo di Montfort per sottometterla e governarla (1267). Corrado Capicius o Capece, insieme con Federico fratello del re di Castiglia, con un piccolo esercito venne in Sicilia come vicario imperiale ed in un primo tempo sconfisse duramente Fulcone Di Puiricard, vicario di Carlo d'Angiò.

Così tutte le terre e città di Sicilia, eccetto Palermo, Messina e Siracusa, passarono dalla parte di Corradino, come ci fa sapere iSaba Malaspina (libro IV capolo VI), e anche Adranum, dove una contrada proprio di fronte a Centuripe conserva ancora il nome di “Capici “ derivato da Corrado Capicius.

Nel 1258 il Papa subissò di scomuniche Corradino e i suoi aderenti, finché il giovane imperatore fu vinto e decapitato a Napoli (29-10-1268).

Il Capece allora fuggì in Sicilia e contro di esso Carlo mandò Corrado Di Gongy, Guglielmo di Beaumont, Filippo e Guido Di Montfort e Guglielmo Stendardo, più crudele di ogni crudeltà, spregiatore di ogni pietà e misericordia.

Tutte le città di Sicilia furono sottomesse eccetto Centuripe, nel cui castello si fortificò il Capece.

Egli strettamente assediato dagli Angioini si lasciò convincere dai suoi uomini spaventati a recarsi nella tenda dello Stendardo per intavolare una tregua, ma quel feroce lo fece afferrare, gli strappò gli occhi e lo fece impiccare a Catania, mentre Centuripe veniva rasa al suolo (1267), Adernò vide da vicino e subì le violenze ed i saccheggi delle feroci masnade angioine.

Le monache di Santa Lucia presero tale spavento che decisero di fuggire a Catania e abbandonare quel luogo di pericolo.

In città li accolse il vescovo Angelo Boccamazza (1272-1295), che diede loro per un tenue censo delle aree in contrada “Grotta del Serpente”, per edificarvi un nuovo monastero.

Da questo periodo il casale di Adernò, che era gravitato nell'orbita della potente famiglia Lancia, passò nell'orbita della famiglia Maletta che già possedeva Maletto e Paternò, portate in dote, forse insieme con Adernò da Jacopa Bonifacio a Manfredi Maletto I, il fondatore di Maletto.

Nel 1267 Manfredi Maletto II era conte di Mineo e nel 1285 era anche signore di Paternò e forse di Adernò.

Da una lettera di Pietro III di Aragona, datata Messina 20-1-1283 e diretta al giustiziere di Castro Giovanni, Natale Anzalone, sappiamo che aveva ricevuto da costui “i quaderni delle collette” imposte da Carlo I d’Angiò, tra cui vi era un quaderno riguardante Adernò.

In un registro di carte angioine nell’archivio di Napoli si trova un rendiconto di colletta, in cui si parla anche di Adernò: “un certo Giovanni di Bullasio si presentò ad Aversa nella corte di del re per fare il rendiconto del suo ufficio di giustiziere di Sicilia di qua del fiume Salso, e fra i conti che consegnò era segnato il ricavato di una vendita di sei buoi, sorpresi in una “difesa” della corte presso Catania e della vendita all’asta di tre buoi che erano di un certo Giovanni di Pritissa di Adernò, accusato falsamente di omicidio.

Inoltre, il solerte giustiziere nella stessa provincia recuperò animali e beni degli allevamenti e masserie regie.

Come si vede dagli accenni precedenti sulla esosità degli angioini, la Sicilia veniva dissanguata e i prodotti, in gran parte portati via dai conquistatori, non bastavano più alla sopravvivenza degli abitanti, le braccia erano sempre di meno, specialmente dopo il massacro e la cacciata dei saraceni.

Così la cittadina di Adernò, fiorente nel tempo dei normanni, si era ridotta a un miserabile casale aperto ad ogni predatore con abitanti ridotti ad un pugno di mendichi, alle dipendenze dei signori forestieri,

Quel monastero di Santa Lucia, così ben dotato nel 1158 per mantenere agiatamente almeno 12 monache senza pagamento, ormai si vedeva dimezzati i suoi introiti e così anche dal tempo dei normanni alla fine del periodo angioino la ricchezza complessiva del territorio di Adernò si era dimezzata: allo stesso modo o di più era sceso il numero degli abitanti (da circa 1000 a circa 300).

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