Dalla guerra di Francavilla Al 1820

La incetta speculativa dei ricchi, i saccheggi delle soldatesche spagnole in Adernò e nei paesi etnei raggiunsero il culmine al tempo della rioccupazione della Sicilia da parte di Filippo V per istigazione del cardinale Alberoni e del Papa Clemente XI, nemico giurato del re di Sicilia Vittorio Amedeo II, che aveva osato intaccare i privilegi della chiesa dell'isola.

La rovinosa guerra che ebbe il suo culmine nella battaglia di Francavilla (20.VI.1719), in cui gli spagnoli furono battuti dagli austriaci, fu per Adernò, divenuta campo di raccolta e di saccheggio degli spagnoli, causa di grandi malanni, di razzie, di violenze tanto che il Comune ne uscì rovinato ed esausto.

Al breve dominio piemontese (1713-1720) successe il dominio austriaco con l'imperatore CarloVI (1720-1735), il cui governo caratterizzato da eccessiva esosità fiscale, finì col rovinare e far regredire tutta la Sicilia e quindi anche Adernò.

Solo verso la seconda metà del '700 con l'avvento al trono di Napoli di Carlo III di Borbone (1735-1759) e nei primi decenni del regno di Ferdinando I (1759-1825), fatta eccezione per alcuni anni, la situazione agraria ed economica andò migliorando, come possiamo dedurre dall'esame dei riveli annuali delle vettovaglie.

Essi, anche se peccano per difetto, mostrano un notevole aumento della produzione agricola che era scesa di quasi duemila salme, per quanto riguarda il grano, nel corso di un secolo.

Infatti nell’anno 1647-48- furono rilevato 3738 salme di grano su una produzione presuntiva di salme 5286, tale quantità nel 1708 era calata a salme 613, nel 1713 era di salme 1004, nel 1715 di salme 1130, nel 1770 di salme1342, nel 1771 di salme 3402, nel 1777 di salme 4319, nel 1789 di salme 4803, nel 1795 di salme 5407.

Contestualmente alla crescita del prodotto granario ricominciò a crescere la popolazione che ai primi del nuovo secolo contava di nuovo circa 6000 anime cioè aveva recuperato circa un terzo rispetto all'inizio del '700.

Le provvidenze del ministro Caracciolo cominciarono a muovere le acque stagnanti della società siciliana, infatti si registrò allora un aumento dei proprietari terrieri.

In Adernò nell'anno 1794 si contarono 6623 abitanti, e, 750 proprietari laici, 12 proprietari enti religiosi, 33 proprietari forestieri.

In questo periodo si emanarono disposizioni per arginare e controllare gli effetti disastrosi delle carestie mediante divieti di esportazione del grano e fondazione di monti frumentari per soccorrere i seminatori.

Ai grossi produttori fu fatto obbligo di riservare un terzo del raccolto di grano a disposizione della comunità cittadina.

In questo stesso periodo si provvide a stabilire regolari cordoni sanitari lungo le spiagge più esposte alla introduzione del contagio, si emanarono disposizioni proibitive di mettere a marcire il lino e la canapa nei pressi dell'abitato, si limitò il numero dei maiali che si potevano allevare in paese, si proibì il transito del bestiame per le vie principali, si riordinarono le confraternita e i lasciti per opere pie furono soggetti a controllo statale.

Si cercò inoltre di togliere o almeno limitare, i privilegi e le immunità del clero, che, ad eccezione degli ordini mendicanti, venne tassato per il pagamento delle rate dei donativi.

Si limitarono le prepotenze della milizia urbana che sfuggiva alle tasse in nome dell'appartenenza al foro militare.

Con dispaccio datato Palermo 30-IX-1799 il generale Diego Naselli ordinava che i miliziotti non potevano godere esonero di tasse, gabelle, imposte per soddisfare le rate dei donativi regi o per le spese amministrative.

In questo periodo in Adernò inizia la cultura intensiva dell'ulivo, del cui olio Adernò era stata sempre importatrice e, in un conto di gabella, figurano tre trappeti intestati rispettivamente a don Domenico Sanfilippo, all'abate don Gaetano Ciancio e al barone Giuseppe Maria Morabito.

Si elencano inoltre 118 ditte per una produzione di 84 quintali di olio che, allora pagavano come gabella 6 tarì per quintale.

A causa della crescita del prezzo della terra e quindi degli affitti, gli enti religiosi più ricchi come la Matrice, i conventi di S. Agostino, di S. Domenico, di S. Francesco e i monasteri di S. Lucia, di S. Chiara, del Conservatorio delle vergini raggiunsero l'apice della loro potenza come si vede dalla imponenza delle fabbriche che furono innalzate o completate in questo periodo.

Il monastero feudatario di S. Lucia rese nobili “i suoi feudi, versando una ingente somma al Comune, inoltre ricomprò gli argenti che lo Stato aveva requisito sotto il vicerè don Filippo Lopez Y Royo.

Si costruì la nuova imponente chiesa di S. Lucia, si fecero i “damusi reali” nel convento omonimo, che venne anche restaurato interamente e allargato col cosiddetto “dormitorio nuovo” che fu inaugurato dal vescovo Corrado Maria Deodato de Moncada.

Dal 1748 al 1820 con varie vicissitudini si costruì il teatro, abbinato alla chiesa di S. Maria della Catena per le rappresentazioni sacre delle feste di metà Agosto.

Si istituì inoltre, “la fiera di S. Lucia - che venne quasi a sostituire la più antica fiera di S. Pietro Apostolo.

Durante la festa della Santa, come risulta dai libri dei conti dei primi del secolo XIX, venne spesso da Catania don Vincenzo Bellini, nonno del grande musicista, che compose e suonò per le monache: messe, vespri e passioni “.

Verso la seconda metà del '700 si tentò anche di iniziare a “basolare “ le vie principali “coi proventi di una gabella sulla carne “.

Insomma Adernò, centro amministrativo ed economico della contea omonima, si preparava a diventare capoluogo di circondario e sede di giudice regio, come di fatto avvenne in seguito alla legge 16-IV-1819.

Intanto si cominciava a parlare di “scioglimento dei diritti o usi civici “ che il popolo godeva sulle terre feudali da tempo immemorabile e che, erano serviti a rendere più sopportabile la vita dei poveri, che potevano per bisogni familiari portare al pascolo le greggi, tagliare legna,. fare canne per coprire i tetti e imparare le viti, cogliere erbe mangerecce, spigolare dopo la mietitura, tagliare pietre, cavare gesso e calce, raccogliere ghiande, prendere la neve o in modo del tutto gratuito o pagando lievi canoni.

I Proprietari invece volevano l'uso libero della terra e cioè la esclusione del popolo da questi essenziali diritti.

L'operazione si trascinò per circa un trentennio, finché vennero calcolati i valori di questi diritti e il corrispettivo fu dato ai Comuni in terre di pari valore, stagliate dalle grandi proprietà.

Questo fatto aggravò le condizioni dei nullatenenti che erano la stragrande maggioranza della popolazione e quelle stesse terre comunali furono cedute a lotti, che andarono a finire nelle mani di pochi ricchi che direttamente o indirettamente si accaparravano le quote anche a causa di amministratori interessati e corrotti.

Verso la metà del secolo XIX la grossa proprietà laica ed ecclesiastica raggiungeva grande potenza: basti pensare che nel 1839 la produzione granaria era salita a 8000 salme di cui 2000 esportate e nel territorio si pascolavano circa 14000 ovini e centinaia tra animali da soma e bovini.

Mentre il popolo pativa la fame più nera, sia per i bassi salari che per scarsezza di lavoro, e i dazi e le gabelle continuavano a gravare sui generi di prima necessità, comprati al minuto dai braccianti e dai poveri artigiani sprovvisti di qualunque proprietà, frequente e normale era l'abuso dei padroni, che oltre alla giornata lavorativa non inferiore a 12 ore, richiedevano nei ritagli di tempo e anche nei giorni festivi dai braccianti servizi casalinghi, di cui il padrone si serviva senza un corrispettivo pagamento.

Molti braccianti tornavano spesso dalle terre lontane affranti dalla fatica e dalla febbre malarica ed erano costretti a mendicare, mentre i loro figli quasi nudi e sporchi giravano per le vie in cerca di un pezzo di pane.

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